Beyond Bulls & Bears

Global Economic Perspective – aprile 2014

Questo contenuto è disponibile anche in: Inglese Olandese

Inserire nomi/foto:

Christopher Molumphy
Michael Materasso
Roger Bayston
Michael Hasenstab
John Beck

TASSI D’INTERESSE USA DESTINATI A RIMANERE BASSI

Sono emersi vari segnali indicanti che l’economia statunitense sta uscendo dalla leggera flessione dell’attività osservata nelle ultime settimane del 2013 e nella parte iniziale del 2014, quando le condizioni atmosferiche avverse hanno probabilmente provocato una distorsione dei dati. La stima di crescita per l’ultimo trimestre del 2013 è stata rivista al rialzo al 2,6% rispetto al precedente 2,4%, sostanzialmente grazie a un andamento migliore dei consumi delle famiglie. E mentre la crescita del prodotto interno lordo (PIL) per il primo trimestre del 2014 potrebbe rivelarsi inferiore a causa della flessione legata alle condizioni atmosferiche, gli osservatori stanno già guardando al secondo trimestre. Condividiamo quindi l’opinione diffusa che nelle prossime settimane l’economia statunitense dovrebbe riprendere la sua buona andatura.

Gli ultimi dati prospettano già un’economia più vivace, con un leggero rialzo della spesa per i consumi a febbraio e marzo dovuta all’aumento dei redditi, mentre le nuove richieste di sussidi di disoccupazione hanno continuato a diminuire. A nostro avviso, la situazione è in miglioramento anche sul fronte societario. L’Indice manifatturiero dell’Institute for Supply Management (ISM) è salito sia a febbraio che a marzo, superando nettamente la soglia 50 che separa la contrazione dall’espansione. I produttori hanno dichiarato che gli ordinativi sono in rialzo, il che potrebbe tradursi in dati più positivi nei prossimi mesi. A marzo anche i valori dell’ISM per l’attività nel settore dei servizi hanno registrato un’accelerazione.

Sebbene l’economia statunitense abbia continuato a rafforzarsi ed è verosimile che prima o poi indurrà la Federal Reserve (Fed) a procedere alla cosiddetta “normalizzazione” delle politiche monetarie accomodanti, in generale si ritiene che il Presidente della Fed Janet Yellen sia stata troppo precisa sui tempi, prospettando a metà marzo che la Fed avrebbe potuto cominciare ad aumentare i tassi d’interesse sei mesi dopo la conclusione del programma di accomodamento quantitativo (QE). Secondo alcuni, questo commento – che ha causato un’immediata, seppure breve, incertezza sui mercati finanziari – voleva indicare la possibilità di aumenti dei tassi a un certo momento della primavera del 2015. Subito dopo, Yellen ha tuttavia cambiato tono, sottolineando come la politica monetaria accomodante sia “ancora necessaria e destinata a rimanere in atto per qualche tempo” alla luce della notevole stasi del mercato del lavoro statunitense.

In sostanza, la politica della Fed è ora decisamente più aperta a varie possibilità rispetto a dicembre 2012, quando il predecessore di Yellen, Ben Bernanke, annunciò di classificare un calo del tasso di disoccupazione al 6,5% come soglia di irrigidimento della politica monetaria. Questa soglia era probabilmente ragionevole allora, in previsione del fatto che una maggiore tensione sul mercato del lavoro avrebbe scatenato un aumento dell’inflazione più elevata. Ma sebbene il tasso di disoccupazione headline sia ora vicino al 6,5%, l’inflazione è bassa (a febbraio la spesa core dei consumi delle famiglie, un indicatore chiave per la Fed, è risultata pari a un tasso annualizzato di appena l’1,1%). La Fed sembra al momento concentrata su una serie di dati basati sull’analisi approfondita delle statistiche del mercato del lavoro. Tali dati comprendono la partecipazione al mercato del lavoro, la crescita salariale e i tassi di disoccupazione di lungo termine, nonché statistiche su licenziamenti e assunzioni e il cosiddetto tasso di disoccupazione “U6” (che include i lavoratori che hanno un contratto part-time unicamente per ragioni economiche e che a marzo era pari al 12,7%, un tasso molto più elevato della percentuale ufficiale di disoccupati). Sebbene vi sia stato un miglioramento, alcuni di questi indicatori continuano ad essere più deboli rispetto ai livelli pre-recessione. Yellen ha dichiarato che “il barometro di tutti questi fattori sta volgendo virtualmente verso un miglioramento”, ma ha anche addotto i problemi della disoccupazione di lungo termine e della bassa crescita salariale come ragioni per credere che la politica monetaria straordinaria sia ancora necessaria. Ha inoltre fatto notare che il calo del tasso di partecipazione al mercato del lavoro (dal 66% del 2008 all’attuale 63%, secondo il Bureau of Labor Statistics) segnala una mancanza di domanda nell’economia.

Sebbene restiamo in attesa di ulteriori miglioramenti della serie di dati della Fed, l’apparente assicurazione di Yellen che la banca centrale, in assenza di pressioni inflazionistiche,  intende mantenere ancora per qualche tempo le condizioni monetarie accomodanti trova eco sui mercati obbligazionari, che sono rimasti relativamente tranquilli. In realtà, ai primi di aprile i rendimenti dei titoli decennali benchmark del Tesoro USA sono saliti al 2,80% rispetto al 2,60% dell’inizio marzo, pur rimanendo ancora al di sotto del tasso del 3% che avevano brevemente toccato a fine dicembre 2013, quando la Fed aveva annunciato i piani di riduzione del programma di acquisto di asset. A nostro giudizio, i fattori che tengono i rendimenti a bassi livelli comprendono i tassi di crescita (e inflazione) negli Stati Uniti, che sono stati relativamente modesti per l’attuale fase del ciclo economico, i segnali di debolezza di certi grandi mercati emergenti e le tensioni geopolitiche dal Mar Cinese Meridionale alla Crimea. Vi è inoltre una domanda persistente di obbligazioni statunitensi, non soltanto perché percepite come “bene rifugio” in un mondo di incertezze, ma anche perché hanno continuato a offrire rendimenti più elevati rispetto alle emissioni tedesche o giapponesi analoghe. In sintesi, riteniamo che i mercati obbligazionari segnalino previsioni contenute di crescita e inflazione negli Stati Uniti. Sebbene le previsioni dei tassi d’interesse rimangano attualmente ben sostenute, l’accelerazione della crescita che ci attendiamo nei prossimi mesi è destinata a determinare un graduale aumento dei rendimenti obbligazionari futuri. Ma dopo aver superato le turbolenze emerse a metà dello scorso anno a fronte delle intenzioni della Fed, è auspicabile che gli investitori siano pronti per un possibile cedimento dell’orientamento cauto della politica monetaria della Fed, qualora i dati economici dovessero dimostrare che l’economia statunitense si muove su un terreno più solido dopo il rallentamento invernale.

IL GIAPPONE CERCA DI FAVORIRE L’INFLAZIONE

Stando ai dati dell’Institute of International Finance indicanti che da febbraio si è registrato un rimbalzo significativo degli afflussi di investimenti sui mercati emergenti, sembra essere ritornata la fiducia degli investitori in questi mercati. Riteniamo che il rafforzamento del sentiment degli investitori rifletta una maggiore propensione a distinguere tra i vari paesi in base ai rispettivi fondamentali, l’attenuazione delle preoccupazioni legate al tapering della Fed e il minore allarmismo per le prospettive della Cina a fronte dell’attuazione di riforme massicce (ma sinora gestibili). Le nuove misure di stimolo messe in atto dalle autorità cinesi per sostenere la crescita e favorire il conseguimento dell’obiettivo per quest’anno, pari a circa il 7,5%, hanno a loro volta contribuito a tranquillizzare gli investitori.

Altrove, la rupia indonesiana è recentemente salita sulla scia di dati relativi a crescita, commercio e inflazione migliori del previsto. In altre regioni dell’Asia, i dati forniti da paesi come Singapore e Corea del Sud sono stati sostanzialmente ottimistici. Come in Indonesia, anche la flessione del real brasiliano è stata arrestata a marzo grazie a una serie di aumenti dei tassi d’interesse. Le tensioni tra Russia e Occidente per l’annessione della Crimea hanno penalizzato gli asset russi, ma quanto meno non si sono acuite e gli effetti della situazione sui mercati al di fuori della Russia e dell’Ucraina a nostro giudizio finora sono stati contenuti. Anche gli asset turchi hanno messo a segno a un rialzo, già prima dell’ottimo risultato conseguito dal partito del Primo ministro Recep Tayyip nelle elezioni locali, in quanto il deficit delle partite correnti del paese ha evidenziato segnali di contrazione e il PIL per l’ultimo trimestre del 2013 ha chiuso a un tasso annualizzato relativamente robusto del 4,4% rispetto al quarto trimestre del 2012.

La buona tenuta recente di numerosi mercati emergenti potrebbe indicare che essi siano potenzialmente in grado di far fronte alla futura “normalizzazione” dei tassi d’interesse statunitensi e a un certo apprezzamento del dollaro statunitense nel medio termine. Permangono naturalmente numerosi rischi, alcuni dei quali legati alle imminenti elezioni in vari paesi. E anche laddove sono cominciate modifiche politiche appropriate, a nostro avviso resta ancora molto lavoro da fare, soprattutto in paesi poco propensi alle riforme, come il Sudafrica e l’India, affinché le previsioni di miglioramento dei mercati si concretizzino.

Ma anche con un rallentamento della Cina, le economie dell’Asia e di altre regioni potrebbero risentire dell’impatto delle coraggiose misure politiche giapponesi. Il 1° aprile, l’imposta sulle vendite in Giappone è aumentata dal 5% all’8%. Un ulteriore aumento al 10% è previsto per ottobre 2015. L’incremento dell’imposta sulle vendite ha risvegliato gli spiacevoli ricordi dell’ultima volta in cui è stato effettuato, 17 anni fa. Quasi immediatamente dopo l’aumento del 1997, il Giappone è precipitato in una recessione profonda e duratura, che ha bloccato il paese nella morsa della deflazione. Gli ottimisti fanno notare che l’ultimo tentativo di aumentare l’imposta sulle vendite ha coinciso con la crisi finanziaria asiatica e una serie di crolli bancari nel Giappone stesso. Questa volta secondo loro il Giappone dovrebbe essere molto più preparato e il quadro economico globale non dovrebbe essere così complesso mentre, cosa importante, la Bank of Japan ha indicato che intende mantenere una politica monetaria estremamente accomodante allo scopo di cercare di limitare le conseguenze negative dell’aumento delle imposte.

La corsa dei consumatori giapponesi a effettuare grossi acquisti prima dell’aumento delle imposte (rispecchiata dai dati del Cabinet Office, che a febbraio hanno evidenziato un incremento delle vendite al dettaglio del 4,35% su base annua) ha contribuito a sostenere i ricavi societari negli ultimi mesi e ha avuto l’effetto desiderato di far salire l’inflazione; tuttavia, l’ultima indagine Tankan del sentiment delle imprese giapponesi ha indicato che le società al servizio dei consumatori giapponesi non sono ottimiste circa le prospettive per il resto di quest’anno. Le indagini sul sentiment in altri settori sono state tuttavia più positive: le grandi società giapponesi hanno riportato previsioni di utili superiori, indubbiamente aiutate dalle iniziative di riforma e dalle imposte sulle società potenzialmente più basse, in combinazione con misure straordinarie di spesa supplementare che comprendono provvedimenti volti a incoraggiare gli investimenti societari e l’occupazione, nonché sussidi per le famiglie a basso reddito. È inoltre verosimile che i recenti aumenti salariali in certi settori possano contribuire a contenere l’effetto dell’incremento dell’imposta sulle vendite.

Non è affatto chiaro se la Bank of Japan riuscirà a rispettare l’obiettivo di generare un’inflazione del 2% entro l’inizio o la metà di marzo 2015, soprattutto perché l’indebolimento dello yen ha rallentato. Qualora l’inflazione non dovesse avvicinarsi a tale obiettivo, la Bank of Japan – che si è già impegnata ad acquistare titoli di stato a lungo termine in misura sufficiente a raddoppiare la base monetaria entro la fine di quest’anno – potrebbe essere tentata di acquistare una mole ancora maggiore di asset, facendo affluire la liquidità addizionale in altri paesi. Di conseguenza, anche se la Fed mette fine al suo programma di acquisti mensili di asset, sembra verosimile che gli asset globali possano continuare a beneficiare delle nuove iniezioni di liquidità.

PROSPETTIVE PER l’europA

La crisi provocata dall’annessione russa della Crimea ha gravato pesantemente sul sentiment europeo per tutto marzo e ai primi di aprile, dando luogo a un complesso dibattito in merito all’esigenza di ridurre la dipendenza europea dal petrolio e dal gas russi e alla portata delle sanzioni che dovrebbero essere imposte a Mosca. L’impatto immediato della crisi ucraina sembra tuttavia limitato per le principali economie europee e sovrastato dai continui segnali di una ripresa delle attività modesta, ma sempre più diffusa. Le indagini economiche relative a marzo hanno rafforzato l’evidenza di un ritorno dell’eurozona alla crescita, che dopo essere iniziato nel secondo trimestre del 2013, ha via via acquisito un certo slancio. L’indice della Commissione europea che misura il sentiment dei consumatori e delle imprese è inoltre salito a marzo per l’11° mese consecutivo. Per quanto riguarda il commercio, i dati recenti della Banca centrale europea (BCE) dimostrano che l’eurozona è decisamente passata a un surplus delle partite correnti, con esportazioni di beni e servizi superiori alle importazioni e un conseguente rafforzamento della fiducia degli investitori in Eurolandia.

A nostro avviso, in Europa sono stati registrati progressi anche sul fronte istituzionale. Dopo due anni di negoziati, i leader dell’eurozona hanno finalmente concordato la nascita di una “unione bancaria”, concepita per prevenire crisi bancarie del genere di quelle registrate da vari paesi nel 2010–2011, garantendo che i governi non siano più i soli controllori delle maggiori banche attive nei rispettivi paesi. Seppure imperfetta, l’unione è stata salutata come il progetto d’integrazione più ambizioso dall’unione monetaria del 1999.

Il miglioramento del quadro economico e finanziario dei paesi periferici europei unito a una generale ricerca continua di rendimento da parte degli investitori ha continuato a sospingere costantemente al ribasso i costi di indebitamento per questi paesi. Per esempio, a fine marzo le obbligazioni decennali portoghesi sono scese sotto il 4% rispetto al massimo del 17,4% toccato a maggio 2011, quando il Portogallo dovette essere salvato dal Fondo monetario internazionale (FMI) e dagli altri paesi europei. Il calo dei rendimenti obbligazionari irlandesi è stato altrettanto ragguardevole, mentre ad aprile anche la Grecia è riuscita a organizzare un’emissione di obbligazioni a medio termine, in cui le richieste di sottoscrizione hanno notevolmente superato l’offerta.

Tale miglioramento delle finanze dell’eurozona è tuttavia avvenuto a scapito di un’enorme compressione dei salari e della domanda interna nei paesi colpiti dalla crisi, come Spagna e Italia, che ha spinto l’inflazione a livelli decisamente inferiori all’obiettivo del 2%, o poco meno, fissato dalla BCE. Al contempo, l’avanzo crescente della bilancia dei pagamenti e la tendenza alla deflazione in Europa ricordano in qualche modo la stagflazione registrata in Giappone negli ultimi 20 anni.

Riteniamo inoltre che sia opportuna una certa cautela in merito ai recenti miglioramenti dell’economia europea. Secondo Eurostat, a febbraio il tasso di disoccupazione destagionalizzato è stato dell’11,9%, ossia inferiore di un solo punto base rispetto a quello dell’anno precedente. Nella maggior parte dei paesi europei, la disoccupazione giovanile è nettamente superiore al 20%, mentre in Spagna e in Grecia supera il 50%. La Commissione europea e la BCE hanno previsto per quest’anno una crescita del PIL dell’eurozona pari all’1,2%, un livello decisamente insufficiente per incidere in misura significativa sul tasso di disoccupazione o sugli enormi debiti di alcuni paesi. Inoltre, se i consumatori e le società prevedono un calo dei prezzi (come sta per esempio succedendo in Spagna), sono destinati a rinviare le spese soffocando così la ripresa.

All’inizio di aprile, Christine Lagarde, direttore generale dell’FMI, ha espresso le sue preoccupazioni per la situazione, incitando la BCE a prendere in considerazione “un ulteriore accomodamento monetario, inclusa l’adozione di misure non convenzionali”. Anche se a marzo l’inflazione dei prezzi al consumo è scesa ulteriormente (attestandosi a un tasso annuo dello 0,5%), nel corso della riunione del consiglio direttivo all’inizio di aprile la BCE non ha annunciato alcuna nuova azione e ha mantenuto il tasso d’interesse di riferimento allo 0,25%. La banca centrale ha tuttavia ribadito di continuare a valutare le opzioni a sua disposizione nel caso in cui la ripresa economica europea non proceda come programmato e l’inflazione non salga nella misura prevista. Qualche giorno prima della riunione del consiglio, la dichiarazione di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, secondo il quale l’accomodamento quantitativo nell’eurozona “non è fuori discussione”, è stata estremamente significativa, data la resistenza della Germania a consentire alla BCE di stampare moneta per acquistare titoli di stato. A nostro giudizio, non vi è alcuno spazio per indulgenza su questo fronte. La fiducia nelle prospettive europee, seppure in miglioramento, appare fragile e le previsioni d’inflazione in Europa sono ancora decisamente inferiori rispetto agli Stati Uniti, dove la crescita si è dimostrata molto più forte. Quanto meno, i tassi d’interesse base nell’eurozona sembrano destinati a rimanere a livelli molto bassi ancora per un certo periodo di tempo. Anziché rispecchiare un miglioramento sostanziale dei fondamentali, la previsione di un periodo protratto di tassi d’interesse bassi (e probabilmente un accomodamento quantitativo) spiega perché le obbligazioni dei paesi periferici dell’eurozona abbiano continuato a salire.

L’elemento fondamentale è che il giudizio sull’effettivo grado di sostenibilità della ripresa attualmente in corso in Europa resta in sospeso. A febbraio, i finanziamenti concessi dalle banche dell’eurozona al settore privato sono nuovamente scesi, indicando che la ripresa nel blocco valutario rimane stagnante, nonostante i recenti segnali di svolta economica. Si dovrebbero prevedere ulteriori stimoli monetari intesi quanto meno a migliorare i dati relativi alla concessione di finanziamenti, e a compensare in qualche modo i rischi geopolitici e l’instabilità causati dai probabili rafforzamenti dei partiti populisti alle elezioni per il parlamento europeo di fine maggio. Resta tuttavia aperto l’interrogativo circa la capacità delle politiche monetarie “non ortodosse” di stimolare la crescita economica di lungo termine in una serie di paesi in cui l’andamento demografico di per sé suggerisce un potenziale calo del tasso di crescita. Per avere alcune risposte immediate, l’eurozona potrebbe infatti guardare al Regno Unito, dove l’austerità fiscale e gli stimoli monetari nel quadro dell’allentamento monetario sono stati all’ordine del giorno dal 2009. Il Regno Unito ha recentemente registrato una crescita molto più forte di quella dell’eurozona (l’incremento del PIL britannico ha raggiunto l’1,7% nel 2013), ed è convinzione diffusa che l’accomodamento quantitativo abbia fornito un contributo fondamentale alla svolta della fiducia delle imprese e dei consumatori e alla ripresa degli ordinativi e della produzione industriale. Tuttavia, come negli Stati Uniti, alcuni sostengono che gli enormi esborsi comportati dall’accomodamento quantitativo (circa 375 miliardi di sterline) sarebbero stati spesi meglio se destinati a misure più efficaci rispetto all’acquisto di titoli di stato. I critici asseriscono inoltre che l’accomodamento quantitativo sia ormai una misura “scaduta” che sta ora alimentando un pericoloso boom dei prezzi degli asset, evidente soprattutto nei prezzi delle abitazioni, anche se il Regno Unito ha continuato a registrare un deficit elevato delle partite correnti.

Importante informativa legale

Data la rapidità dei cambiamenti che possono verificarsi sui mercati e nelle condizioni economiche, è spesso difficile fornire documentazione aggiornata che illustri le situazioni più recenti. Il presente documento intende essere puramente d’interesse generale e non deve essere interpretato come una raccomandazione o una consulenza d’investimento personale. Le opinioni espresse sono del gestore degli investimenti indicato e i commenti, le opinioni e le analisi si intendono resi alla data di pubblicazione e sono soggetti a modifiche senza preavviso. Le informazioni fornite in questo materiale non devono essere intese come un’analisi completa di tutti i fatti rilevanti relativi a un paese, una regione o un mercato. Tutti gli investimenti comportano rischi, inclusa la perdita del capitale.  Il valore degli investimenti può subire rialzi e ribassi; di conseguenza, gli investitori potrebbero non recuperare l’intero ammontare del proprio investimento.